Prima dell’introduzione del D.L. n. 201 del 6.12.2011 Decreto Salva Italia, il lavoratore che avesse raggiunto l’età pensionabile poteva essere licenziato ad nutum. Una volta raggiunta dal lavoratore l’età anagrafica fissata dalla legge per l’ottenimento della pensione di vecchiaia, il datore di lavoro poteva licenziare il dipendente anche in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo.
Ai sensi dell’art. 24 del D.L. 201/2011, convertito con modifiche nella Legge 22 dicembre 2011 , n. 214), le tutele previste a favore del lavoratore illegittimamente licenziato si applicano sino a che quest’ultimo non abbia compiuto 70 anni, anche quando abbia raggiunto l’età prevista per l’accesso alla pensione di vecchiaia.
Tuttavia tale disposizione, si legge nel comma 4 dell'art. 4, è valida laddove sia applicabile l'art. 18 della L. 300/1970.
Per i datori di lavoro in regime di stabilità obbligatoria di cui all’art. 8, L. 604/1966 (dimensione occupazionale < 15 dipendenti), come sono da considerare un condominio o un proprietario di fabbricati, è quindi nostra opinione che, una volta raggiunti i requisiti pensionistici, e non l’età di 70 anni, da parte del lavoratore subordinato, il datore di lavoro possa liberamente recedere dal rapporto di lavoro attraverso un licenziamento ad nutum, dando il preavviso contrattualmente previsto.
Il medesimo Decreto Salva Italia a decorrere dal 1° gennaio 2012, stabilisce che possono conseguire il diritto alla pensione di vecchiaia:
1) i soggetti in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 esclusivamente in presenza di un’anzianità contributiva minima pari a 20 anni, costituita da contributi versati o accreditati a qualsiasi titolo.
Per l’accesso alla pensione di vecchiaia è richiesto il possesso dei seguenti requisiti anagrafici: nel periodo 1.1.2014 – 31.12.2015 à 63 anni e 9 mesi
2) i soggetti per i quali il primo accredito contributivo decorre dal 1° gennaio 1996, in presenza del requisito contributivo di 20 anni e del requisito anagrafico, al ricorrere di una delle seguenti condizioni:
a) se l’importo della pensione risulta non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (c.d. importo soglia), la pensione di vecchiaia spetta secondo gli stessi requisiti previsti per i lavoratori in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995;
b) al compimento dei 70 anni di età e con 5 anni di contribuzione “effettiva” - con esclusione della contribuzione accreditata figurativamente a qualsiasi titolo - a prescindere dall’importo della pensione. Dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2015, il requisito anagrafico di 70 anni è incrementato di 3 mesi per effetto dell’adeguamento alla speranza di vita e potrà subire ulteriori incrementi di adeguamento.
Si ritiene però opportuno riflettere e porre massima attenzione sul fatto che il datore di lavoro, per esercitare legittimamente la facoltà di recesso, debba avere conoscenza del raggiungimento da parte del dipendente del diritto alla prestazione pensionistica, cosa che lo mette senza dubbio in una posizione di impaccio gestionale, considerato che non può autonomamente accedere ai dati relativi all’anzianità contributiva maturata dal dipendente.
L'estratto contributivo del singolo lavoratore è considerato un'informazione riservata, del quale il datore di lavoro non può prendere cognizione senza il consenso del dipendente, né quest’ultimo è tenuto ad alcun obbligo di comunicazione circa il tempo di raggiungimento dei requisiti del pensionamento di vecchiaia.
Diviene pertanto difficile verificare l’effettivo raggiungimento dell’anzianità contributiva, verifica ancora più ardua nei casi di carriera lavorativa frammentata, se il lavoratore non abbia messo al corrente l’azienda della propria situazione previdenziale.
In assenza di specifiche indicazioni del CCNL applicato, la giurisprudenza ha più volte affermato che nel caso di licenziamento ad nutum per raggiunto limite dell’età pensionabile il periodo di preavviso debba decorrere da giorno in cui l’età viene compiuta.
Nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica non opera l'automaticità del collocamento a riposo in relazione al raggiungimento del limite di età previsto dalla legge, come avviene invece nell'ambito del pubblico impiego, ma occorre sempre, per la risoluzione del rapporto il preavviso, ai sensi e per gli effetti degli artt. 2118 e 2119 c. c..
Con la conseguenza che sia nel caso di intimazione anticipata per iscritto della risoluzione del rapporto (normalmente in numero di mesi pari a quelli atti a far scadere il termine di preavviso in coincidenza con l’età pensionabile,comunicazione cui la giurisprudenza riconosce non tanto valore di preavviso ma mero atto idoneo a ricordare la scadenza al lavoratore) sia nel caso di mancata intimazione, compete al pensionando l’indennità sostitutiva del preavviso.
Pertanto il conseguimento da parte del lavoratore dell'età pensionabile, se abilita successivamente il datore di lavoro a procedere al licenziamento ad nutum, non esonera lo stesso dal concedere il preavviso di licenziamento e, in difetto della relativa intimazione, dal pagamento della indennità sostitutiva.
Nello specifico il contratto collettivo nazionale proprietari fabbricati prevede una durata del preavviso di licenziamento (portiere A4 con alloggio) pari a 3 mesi, decorrenti dall’1 o dal 16 di ogni mese.
Qualora la proprietà del fabbricato volesse instaurare un nuovo rapporto di lavoro a tempo determinato dovrà prendere in considerazione le novità recentemente introdotte su questa fattispecie contrattuale.
La Legge n. 78/2014 ha apportato una serie di modifiche relative agli aspetti più salienti del contratto a tempo determinato.
Una novità di primo piano è quella dell’eliminazione dell’obbligo di specificare la causale: il datore di lavoro, in virtù della nuova disciplina legislativa, non deve più indicare le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che lo hanno indotto ad utilizzare la forma contrattuale a tempo determinato. Si parla, quindi, di contratto a-causale.
Il contratto di lavoro a termine a-causale, concluso tra un datore di lavoro ed un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, ha una durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe.
Tale contratto è prorogabile, con il consenso del lavoratore e nei limiti della durata massima prevista (36 mesi), fino a un massimo di cinque volte, indipendentemente dal numero dei rinnovi. La proroga, per la quale è necessaria la forma scritta, è ammessa a condizione che si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto a tempo determinato è stato stipulato, senza l’onere, a carico del datore di lavoro, di fornire la prova della causale che giustifica la prosecuzione del rapporto.
Raggiunti i 36 mesi cumulativi di tutti i periodi di lavoro a termine, aventi ad oggetto mansioni equivalenti, il datore di lavoro ed il lavoratore che hanno stipulato il primo contratto a tempo determinato posso decidere di “legarsi” con un nuovo rapporto di lavoro. Il nuovo contratto di lavoro dovrà però essere stipulato presso la Direzione territoriale competente, con l'assistenza di un rappresentante di una delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
E’ necessario, inoltre, che trascorra un lasso di tempo tra il primo e il secondo contratto a termine, stipulato tra le stesse parti contrattuali:
- intervallo di 10 giorni se la durata del primo contratto è inferiore ai 6 mesi
- intervallo di 20 giorni se la durata del primo contratto è superiore ai 6 mesi.
A ciascun datore di lavoro è consentito stipulare un numero complessivo di contratti a tempo determinato che non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°gennaio dell’anno di assunzione; per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è in ogni caso possibile stipulare almeno un contratto di lavoro a tempo determinato. I contratti collettivi nazionali hanno, comunque, la facoltà di individuare limiti quantitativi diversi per il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (CCNL applicato prevede una quota massima del 10%).
La L. 92/2012 ha introdotto un aumento dell’aliquota contributiva pari all’1,4% per finanziare l’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), che verrà restituita al datore di lavoro in caso di una successiva trasformazione del contratto a tempo indeterminato.
E’ necessario, inoltre, che trascorra un lasso di tempo tra il primo e il secondo contratto a termine, stipulato tra le stesse parti contrattuali:
- intervallo di 10 giorni se la durata del primo contratto è inferiore ai 6 mesi
- intervallo di 20 giorni se la durata del primo contratto è superiore ai 6 mesi.
A ciascun datore di lavoro è consentito stipulare un numero complessivo di contratti a tempo determinato che non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°gennaio dell’anno di assunzione; per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è in ogni caso possibile stipulare almeno un contratto di lavoro a tempo determinato. I contratti collettivi nazionali hanno, comunque, la facoltà di individuare limiti quantitativi diversi per il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato (CCNL applicato prevede una quota massima del 10%).
La L. 92/2012 ha introdotto un aumento dell’aliquota contributiva pari all’1,4% per finanziare l’Assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), che verrà restituita al datore di lavoro in caso di una successiva trasformazione del contratto a tempo indeterminato.